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L'epifania della CurArte

 
 INTRODUZIONE ALLA CURARTE

Nel post precedente ("Nel golfo della molteplicità potenziale") accennavamo come, nei percorsi di CurArte, l’agire preceda sempre il capire e sia di fatto la strada maestra che porta velocemente alla cura.

I tempi di soluzione di un intervento di CurArte sono, infatti, piuttosto rapidi. Da una statistica degli ultimi cinque anni, su un totale di circa 300 casi esaminati, i margini di successo, ossia di estinzione del problema presentato, sono del 75%, di cui la gran parte tra il terzo e l’ottavo incontro.

Una rapidità dovuta all'utilizzo di appropriate tecniche e strategie che, proprio agendo nell'alveo della disciplina artistica, si possano permettere un totale stravolgimento di ogni rigido paradigma, a partire dall'assenza di un linguaggio specifico e, quindi, dalla possibilità di utilizzare qualsiasi linguaggio, nessuno escluso.

Si viene così a superare ogni ortodossa convinzione che da sempre sappiamo essere il più grande nemico della curiosità e della scoperta.

È il caso, da poco concluso, di un uomo di 52 anni: bancario, con una grande passione per il teatro che esercitava da anni a livello amatoriale, elemento che si dimostrerà fondamentale per la risoluzione del caso. L'uomo si presentò in studio descrivendo -più o meno così- il suo problema: “Da sei anni sono in analisi, da quattro ho capito che non amo più mia moglie, eppure non riesco a lasciarla”.

È la formula tipica di tante situazioni che mi capita di affrontare: “Sa, ho fatto dieci anni di..." metteteci una delle infinite possibili psicoterapie che scavano nel profondo. "E sa, mi è servita molto, ho capito che..." aggiungete una delle infinite possibili consapevolezze che possiamo trarre scavando nelle nostre vite. Poi, però, la conclusione è sempre la stessa: una volta che sono consapevole, che ho capito qual'è il mio disagio: "Adesso cosa devo fare?".

L’uomo in questione, riferì -appunto- che non amava più la moglie, ma le voleva bene e assolutamente non voleva farle del male e poi c'era il figlio che non voleva far soffrire e di cui -ovviamente- temeva la reazione. “Un anno fa ho conosciuto una donna,” raccontò, “Ci siamo innamorati, ma da allora, paradossalmente, la mia vita è un inferno e non le nascondo che ho pensato più volte di farla finita. Ogni giorno vorrei dire a mia moglie che è finita, che amo un'altra donna, ma non riesco. Non so davvero più cosa fare.”.

L'evento epifanico dell'opera di CurArte si distanzia diametralmente dalla consapevolezza di stampo psicanalitico, proprio perché non la rincorre, puntando invece concretamente alla risoluzione del problema (in questo caso: annunciare alla moglie la fine del loro amore), attraverso una ristrutturazione creativa dello stesso.

Affinché ciò avvenga con la rapidità che abbiamo detto, vanno applicate adeguate tecniche e strategie, dispositivi per entrare nel tessuto immaginifico del soggetto e superare le sue resistenze.

L'attore in questione si dimostrò particolarmente lacerato dal concetto di onestà: il desidero di essere onesto con la moglie, con il figlio, ma la paura che questa onestà fosse per loro devastante devastante, questo cortocircuito sembrava generare l'impasse che da anni lo tormentava.

Ragionammo, così, anzitutto, attorno al concetto di finzione, di come nessuno, più di lui, poteva sapere che finzione e disonestà non erano sinonimi, che anzi, come disse Picasso: “L’arte non è che una bugia che ci fa realizzare la verità”. Scoprimmo così che quell'evento tanto faticoso avremmo potuto simularlo, proprio grazie al superpotere di cui lui era in possesso: la recitazione.

Quella stessa recitazione che da anni lo faceva salire sul palco, che gli faceva indossare una maschera che mentre lo proteggeva gli permetteva anche di rendere reale ciò che non lo era, o che attendeva il suo intervento per diventarlo. Fu semplice a quel punto pensare che se avessimo scritto un copione di quell'evento, avremmo anche potuto controllarlo più facilmente, anzitutto provandolo in vitro per capirne gli effetti.

Nelle settimane che seguirono scrisse forsennatamente il suo copione: la scena con cui avrebbe fatto la sua dichiarazione alla moglie. Ogni 15 giorni ci vedevamo, per me lo metteva in scena e, insieme, discutevamo come miglioralo, anche esteticamente. Dopo 5 incontri era pronto a debuttare in quello strano e difficilissimo teatro che era la sua casa con per pubblico quella sola persona che sicuramente non l'avrebbe applaudito.

Lo spettacolo andò in scena nella settimana successiva e, malgrado la fatica e il dolore, fu un successo.

L’ho rivisto il mese scorso, al consueto feedback che chiedo dopo sei mesi dalla dismissione. Da circa un mese si era trasferito a casa del suo nuovo amore, la settimana precedente al nostro incontro c'era stata una cena con lei e il figlio dove tutto, con un po di tensione, era andato abbastanza bene, mi disse, infine, che stava pensando di trasformare quel copione in un vero e proprio spettacolo teatrale.

A una preparazione riflessiva segue, dunque, una proposizione pragmatica. Nel percorso di CurArte -infatti- contano solo i fatti, anzi, di più: i fatti rilevati dal soggetto della cura che è testimone ultimo della sua efficacia e del senso del percorso che sta compiendo. Ci sono, insomma, molte cose da dire e da fare, ma da dire solamente, non c’è n’è. Mentre questo “dire” che non si fa azione è, invece, spesso, una dei grandi limiti di molti interventi terapeutici.